Una delle maschere dell'artista Leo Selvaggio per ingannare il riconoscimento facciale |
Ma leggendo Il Capitalismo di sorveglianza durante le interminabili giornate di lockdown, si capisce che tutte le preoccupazioni per le app, per i posti di blocco in pianura Padana e i moduli sulla natura dei tuoi affetti stabili, o i droni che misurano il distanziamento sociale in spiaggia, sono pure contingenze. Quello che noi temiamo possa succedere è già accaduto e non abbiamo, quasi, armi di difesa. Mentre un altro pensatore di successo che ama terrorizzarci sulle prospettive catastrofiche dell’era digitale come Yuval Noah Harari ci ha mostrato come l’uomo stia diventando un tool obsoleto, Zuboff ci spiega come noi, le nostre emozioni, quello che pensiamo, o che pensiamo di pensare e di decidere, ovvero il nostro surplus comportamentale, sia il carburante di un nuovo capitalismo di rapina in mano ad un gruppo di industriali dei big data senza scrupoli e refrattari alle regole, che rispondono al nome di Google, Facebook, e poi a seguire Amazon, Apple, Microsoft. La loro principale attività è raccogliere dati senza il nostro permesso per trasformarli, grazie ad una potenza di calcolo senza precedenti, in strumenti predittivi da vendere alle aziende in modo da predeterminare e condizionare con una precisione sempre più millimetrica i nostri consumi.
Un processo che ha una precisa data di inizio, quando nel 2000 Amit Patel, ricercatore di Standford da poco assunto da Google, si rese conto che
«era possibile ricostruire, partendo dalle query degli utenti (numero e pattern dei dati cercati, spelling, la formulazione e la punteggiatura della ricerca effettuata on line, il tempo di sosta e la localizzazione) un rilevatore del comportamento umano».
Allora anche Yahoo era arrivato alla stessa conclusione, ma rinunciò allo sfruttamento di quei dati. Da allora tutto è cambiato.